cavolfiore viola
Il cavolfiore, come dice il nome, è un "fiore nel piatto".
Non ci sono solo i fiori spontanei ad arricchire i piatti: da secoli portiamo in tavola insospettabili infiorescenze, assai gustose, mascherate da ortaggi…

Sapevate di essere degli “antofagi”, inquietante vocabolo che significa – dal greco – “mangiatori di fiori”, ben prima dell’attuale trend di guarnizione del piatto con i fiori spontanei? Basta fare mente locale: da giugno a settembre i fiori di zucca non mancano mai in cucina. Da novembre ad aprile è invece tempo di carciofi, nient’altro che il bocciolo della pianta che tanto assomiglia a un cardo. Da novembre a marzo si mangiano anche i broccoli, verde infiorescenza costituita da minuscoli bocciolini ben chiusi. E tutto l’anno con le diverse varietà stagionali ci accompagnano i cavolfiori, bianchi, rosa, viola, verdi o romaneschi: un’enorme infiorescenza, ormai del tutto irriconoscibile come tale a causa di secoli di selezione orticola, che mettiamo comunemente nel piatto con grande godimento del palato.

Dello zucchino, anche i fiori

Li chiamiamo “fiori di zucca”, ma più propriamente dovremmo dire “di zucchino”: sono solo questi ad avere dimensioni tali da non ridursi a un millimetro di estensione con la cottura, come accadrebbe invece utilizzando le corolle delle altre Cucurbitacee da orto, la zucca, il cetriolo, il melone o l’anguria…

E sono solo quelli maschili a venire raccolti prima che si schiudano (il che significa in piena estate essere già alle 4 di mattina nell’orto…): solo così manterranno il turgore necessario per venire imbottiti in mattinata con mozzarella e acciughe, per una prelibatezza da friggere o da passare velocemente in forno con un filo d’olio, e da servire subito come finger food… Si distinguono da quelli femminili per il gambo molto lungo (anche più di 10 cm), a differenza di quelli femminili che presentano già un piccolo rigonfiamento alla base, prodromo della futura zucchina. Ça va sans dire, se si raccolgono ogni giorno tutti i fiori maschili prima che sboccino, si arresterà la produzione delle zucchine, i cui fiori femminili non verranno fecondati…

Il compromesso si raggiunge alternando le ricette: se i fiori ancora chiusi sono indispensabili per consumarli ripieni e fritti, quelli raccolti attorno alle 16, già sbocciati e parzialmente richiusi dopo aver assolto al compito di impollinatori, si possono utilmente impiegare per altre preparazioni. Per es. pastellati (anche in tempura) e fritti, oppure aggiunti a fine cottura – a fuoco spento – appena prima della mantecatura al risotto alle zucchine o a quello ortolano, o anche appassiti in un goccio d’olio evo con un trito di cipollotti ed erbe aromatiche e una dadolata di scamorza per condire i fusilli integrali. E poi in frittata, a crudo nell’insalata mista di verdure, appassiti per guarnire insalate di farro, d’orzo o di quinoa, e ovunque si abbini il loro delicatissimo gusto che sta a metà fra la zucchina cruda e l’erbetta di campo.

L’importante è procedere rigorosamente in giornata: il tessuto dei petali è finissimo e si deteriora in 24 ore. Per lo stesso motivo il lavaggio deve essere velocissimo, sotto l’acqua corrente a getto debole. E ancora per la medesima causa, la passata sul fuoco deve essere rapidissima per evitare che si riducano a un nulla nel piatto (e le quantità iniziali abbondanti). Ovviamente, non si conservano, se non per un giorno al massimo, rigorosamente in frigo.

Per imbottiture e fritture si elimina solo il gambo, lasciando intatto il calice basale, mentre per tutte le altre preparazioni i fiori vanno aperti lateralmente con delicatezza, per togliere il calice basale e la struttura allungata e dura che porta il polline.

Del carciofo, solo i fiori

Ortaggio burbero d’aspetto quanto squisito al palato, il carciofo più prelibato è quello giovanissimo, ossia… il bocciolo appena formato! Sembra incredibile che da questo scrigno – a volte – di spine potrebbe scaturire, se lasciato sulla pianta, un bellissimo fiore viola-magenta, come capita di vedere sul suo progenitore spontaneo, Cynara cardunculus, comunissimo nei campi incolti dalla Pianura Padana in giù.

Ma noi uomini golosi prima abbiamo selezionato la varietà coltivata (ssp. cynara) e poi, ogni inverno, recidiamo i capolini fiorali poco dopo la loro formazione, per assaporarli nel piatto. I migliori sono i secondi di stagione: non più duri come i primi novembrini, ma nemmeno “barbuti” come tutti quelli che seguiranno da gennaio in poi. Proprio la “barba” è il segnale del fiore in formazione: non sono altro che i “petali” filiformi che si stanno sviluppando, rendendo immangiabile la cima. E, quel che è peggio, il processo di crescita dei petali non si arresta con la raccolta: ciò significa che, se fra il taglio e il consumo passano non più di 1-2 giorni, il “pelo” può ancora essere contenuto, diversamente si trasforma in una moquette spinosa e stopposa che avvelena la pietanza dello chef poco accorto, che cioè non ha aperto e mondato l’ortaggio prima di cucinarlo. Va da sé che, se il carciofo è destinato al consumo a crudo, tagliato a listarelle, dovrà essere non solo freschissimo, ma anche del tutto privo di barbe. Lasciato a maturare, anche al fresco del frigo, oltre a sviluppare il pelo, s’indurirà progressivamente e tenderà ad annerire… Lo sconsiglio vale anche per i carciofi già cotti, nei quali il processo di degenerazione procede anche alle basse temperature…

L’Italia centro-meridionale è ricca di eccellenze “carciofesche”: dagli Igp carciofo Brindisino, carciofo di Paestum e carciofo Romanesco del Lazio (la “mamma romana” perfetta per l’imbottitura con pane, guanciale e prezzemolo) alla Dop carciofo Spinoso di Sardegna, passando per i presìdi Slow Food come il Violetto di Sant’Erasmo (isolotto nella Laguna di Venezia), il carciofo di Perinaldo (in Liguria), il Violetto di Castellammare (parente del Romanesco), il Bianco di Pertosa (che nasce sotto gli olivi degli Alburni) e lo Spinoso di Menfi.

Coltivarlo è facilissimo, se si sa come fare… La carciofaia è un investimento, in termini di terra e di tempo, che dura una decina d’anni, durante i quali i boccioli e le piante vanno protetti da malattie fungine e… dalle arvicole che sono ghiotte delle amarissime radici!

Mangiarlo invece è golosissimo, se piace il retrogusto aromatico che lascia in bocca: crudo con il Grana Padano a scaglie, nel risotto, nella pastasciutta con sfoglie di pancetta, come contorno leggerissimo condito con olio e sale o stufato con patate e zucca, nelle torte salate e nello strudel annegato nella tosella, fritto alla Giudia o imbottito e passato in tegame...

Qualunque sia la preparazione scelta, l’amarognolo bocciolo depurerà alacremente il nostro fegato, liberandolo dalle tossine accumulate e aiutandolo a lavorare al meglio.

Del broccolo, l’infiorescenza prima che sbocci

Il delizioso broccolo – prezioso per far gustare le orecchiette con le cime di rapa a chi non gradisce l’amarognolo di queste ultime – invoca, come e quanto i fiori di zucca e il carciofo, la massima freschezza. Capire “quanti giorni ha” è semplice: basta guardare l’infiorescenza, che deve essere color verde cupo con sfumature bluastre, indice che i minuscoli fiori che la compongono si sono appena formati e risultano ancora ben serrati. Alla larga invece da impercettibili o addirittura evidenti puntinature gialle, il colore dei petali dei fiorellini: intravvederlo significa che si stanno aprendo, conferendo all’ortaggio un terribile sapore di fieno.

Le cimette insaporiscono le orecchiette, anche nella versione con dadolata di patate, ma si prestano anche a vellutate (dove entra convenientemente anche la polpa del gambo liberata dalla scorza fibrosa, per una cucina che non spreca nulla), ai gratin al forno con la besciamella, alle quiche con ricotta e salsiccia. La loro morte più semplice è però come contorno, lessate al dente e ripassate velocemente in padella con aglio, olio evo e peperoncino…

Ortaggio tipico del Sud Italia, la Brassica oleracea var. italica viene coltivata in una curiosa variante in terra vicentina: il broccolo Fiolaro di Creazzo è magrissimo rispetto al cugino normale, ma è ancora più tenero, dolce e aromatico…

Del cavolfiore, l’infiorescenza “mostruosa”

Lo dice il nome: del cavolfiore mangiamo proprio il fiore, anzi, l’infiorescenza abnormemente ingrossata (chiamata “grumolo”) per la quale la pianta (Brassica oleracea var. botrytis subvar. cauliflora) è stata selezionata. In primis nel classico colore bianco panna, poi in quello verde acido, quindi violetto su base verdolina, infine – da qualche anno – anche rosa bebè e arancio albicocca, senza dimenticare il cavolfiore romanesco, che al verde fluò abbina un’architettura spigolosa fatta di torrioni scolpiti in un momento di pazzia da madre Natura.

Ortaggio un tempo solo invernale, oggi cresce per tutto l’anno – perlomeno nella versione candida – grazie alla selezione di numerose varietà estive. E, come il broccolo, fa benissimo al nostro organismo debilitato da tossine, stress e inquinamento: è ricchissimo di antiossidanti e di composti solforati – responsabili, purtroppo, dell’odore non propriamente gradevole in cottura – che ci depurano, ci rinvigoriscono, ci rafforzano e soprattutto – è confermato scientificamente – prevengono la formazione dei tumori.

Se d’estate siamo obbligati a rivolgerci al classico cavolfiore niveo, di sapore dolce e mediamente aromatico, da novembre ad aprile ci si può sbizzarrire con le cromie e le papille: il colore verde acido nel cavolo tondo si abbina a un gusto più forte ed erbaceo che lo indica per contorni a piatti di carne o per quiche con presenza di salsiccia o pancetta; ma se lo porta l’ortaggio romanesco – sempre consistente anche con mezz’ore di cottura – è meglio presentarlo in antipasto condito con aceto di mele o di miele, o accoppiarlo a un’insalata mista con foglie crude e ingredienti cotti come le patate o le barbabietole o le uova sode. Il cavolfiore violetto solletica il palato a metà fra quello verde tondo e il bianco: sa più di selvatico rispetto all’incolore, ma si sposa con quasi tutti i cibi tradizionali, dalle uova alla besciamella, al Parmigiano/Grana/Pecorino/Caciocavallo, nonché alla pasta, al farro e alla sfoglia di quiche e strudel salati. Infine l’ortaggio rosa è molto coreografico quanto poco saporito: è ideale per chi ne ama veramente poco il gusto, che qui è molto fievole.

Questa versatile verdura, che ha sfamato intere generazioni nel Meridione fra l’800 e il ‘900, condisce da secoli le orecchiette pugliesi insieme con acciughe e mollica tostata, oppure fa da contorno in padella con olive, capperi e peperoncino calabrese, o si getta nella besciamella a gratinare nei forni lombardi, o finisce con ricotta e speck nello strudel salato altoatesino. Se deve morire da solo, è bene cuocerlo a vapore e al dente, mentre se si mescola ad altri ingredienti preponderanti è preferibile lasciarlo un po’ più morbido, in maniera che si sciolga in bocca.

Inesauribili fiori spontanei

Se amate l’allegria dei fiori nel piatto, la Natura offre l’imbarazzo della scelta: sambuco (Sambucus nigra), robinia (Robinia pseudacacia), glicine (Wisteria sinensis, W. frutescens), magnolia sia giapponese sia sempreverde (Magnolia japonica, M. grandiflora) in aprile-maggio scendono dal cielo per tuffarsi in una pastella dolce e venire fritti, una golosità da prendere per il gambo e staccare con le labbra fiore per fiore o petalo per petalo, magari durante una cena di passione con il proprio partner.

Dai prati incontaminati e dagli orti vengono il giallo fiore del tarassaco (Taraxacum officinale) che guarnisce le insalate miste, la corolla color cielo di montagna della borragine (Borago officinalis) che colora il risotto alla parmigiana, le infiorescenze rosa dell’erba cipollina (Allium schoenoprasum) da accompagnare al pesce all’acquapazza, i fiorellini lilla della cicoria selvatica (Cichorium intybus) che accompagnano in vinaigrette il pollo, il coniglio e il pesce, i petali arancione color del sole della calendola (Calendula officinalis) da incorporare aromaticamente al burro, gli azzurri fiorellini della lavanda (Lavandula angustifolia) che muoiono nell’aspic e nei cubetti di ghiaccio che rinfrescano i cocktail, i bocciolini del nasturzio (Tropaeolum majus) da cogliere ancora chiusi e trasformare come i capperi, le timide e profumatissime corolle delle violette (Viola odorata) da candire.

Occhio solo a raccogliere il fiore giusto, nel posto giusto, cioè il più puro possibile, e a lavarlo velocissimamente sotto una doccetta leggere d’acqua corrente, per non sgualcirlo né ammaccarlo. Asciugatelo subito, con le mani della festa, e servitelo nel piatto.

Metti un fiore nel piatto: sarà più buono - Ultima modifica: 2022-01-07T06:35:48+01:00 da Elena Tibiletti